Le emozioni fanno parte della quotidianità di ognuno. Che si tratti di gioia, di tristezza o magari di paura, le emozioni condizionano le azioni e i pensieri di chiunque. A volte possono spingere a fare di più, a migliorarsi, a superare i propri limiti. Altre, rallentano se non addirittura paralizzano non solo le azioni, ma anche le intenzioni. E questo vale nella vita, ma soprattutto nello sport.
«Nella mia esperienza di allenatore di alto livello ho capito che oltre alla preparazione tecnica e a quella atletica, almeno nelle discipline endurance che seguo in prima persona, la componente mentale e quella relazionale sono determinati». Il dottor Fabio Vedana, coach sportivo da oltre trent’anni, sa bene che non basta un valido allenamento fisico per vincere una gara. È doveroso però chiarire acosa si riferisce quando parla di componente relazionale. «Alle relazioni con tutti gli attori che sono all’interno del proprio sistema. Parlando di una gara, dunque, ci si riferisce agli avversari, agli allenatori, agli arbitri o ai giudici… Tutto l’ambiente circostante è determinante per raggiungere una high performance. Serve, inoltre, una scala di valori condivisi con tutte le persone che fanno parte del proprio team».
Questo serve anche ad utilizzare le emozioni o nell’eventualità a dominarle?
«L’appoggio di un team serve anche a riconoscere le emozioni. È fondamentale, inoltre, che ognuna di esse abbia un nome. Non solo: bisogna collocare l’emozione in base all’effetto che ha e al perché viene generata dalla mente permette di avere uno strumento potente per poter performare al meglio. Sia come atleti che come persone. Su questo aspetto bisogna lavorare quotidianamente. Possibilmente con il proprio coach»
Dunque uno sportivo oggi ha bisogno di un allenatore atletico e al tempo stesso di un mental coach?
«Sì, ma in parte. Ultimamente la figura del mental coach è diventata inflazionata. Il mental coach deve essere una persona formata. Oggi basta un corso di cinque settimane per diventare mental coach. Tra l’altro non va confusa la figura dello psicologo con quella del mental coach. È probabile che un mental coach che magari ha alle spalle un’attività di dieci anni, non meno, abbia sviluppato una capacità di analisi dal punto di vista mentale. In quel caso può avvalersi della collaborazione di uno psicologo, ma non sempre è necessario. Se un atleta ha difficoltà nella gestione delle emozioni o difficoltà relazionali allora sì, serve. Altrimenti un mental coach basta. Anche un allenatore deve avere delle basi in questo ambito, sebbene il suo lavoro sia orientato alla parte fisica e fisiologica dell’allenamento».
Esistono dei trucchi per imparare a gestire le emozioni?
«Si può essere paralizzati dalla paura, o sopraffatti dall’angoscia. O intristiti. O al contrario si può stare bene talmente che il flow, il flusso di energia, scorre veloce e porta a fare anche meglio delle proprie aspettative. È come essere in uno stato di esaltazione. Nello sport accade che lo stato emotivo sia determinante in una gara, favorendo spesso la capacità di andare oltre le aspettative. Il trucco per gestire le emozioni dunque è semplice: riconoscerle. In caso di emozioni negative, chiedendo aiuto. È il primo passo per superarle: nello sport, contando sull’aiuto del proprio team, si riesce a far cadere ogni sovrastuttura negativa che può portare alla depressione. Creare un ambiente di lavoro in linea con l’obiettivo che si vuole raggiungere è determinante. Ma prima bisogna capire qual è, appunto, l’obiettivo che si vuole raggiungere. E bisogna conoscersi. Questo è un lavoro intenso».
E vale anche nella vita di chi non gareggia a livello professionistico.
«Conoscersi e conoscere le proprie emozioni serve anche a chi non pratica sport. Un bulldog rimarrà sempre un bullodog: anche se allenato, se correrà contro un levriero, perderà sempre. Ma tra levrieri, vincerà sempre quello più allenato. E questa metafora vale non solo in ambito agonistico».
Nella quotidianità, per allenarsi a dominare le emozioni, bisogna rivolgersi ad un professionista?
«Alcuni atleti prima di una gara mi dicono di avere paura. È normale. La paura tiene alta la soglia dell’attenzione. E dunque le difese. Ma la paura deve essere motivata. Quando diventa immotivata va controllata. Insieme ad altre le emozioni da controllare, se paralizzano le azioni. In quel caso serve un aiuto, sì. E riconoscerlo è il primo passo per essere aiutati».